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« Torna agli articoli di Bernardo Cervellera
Mentre Pechino si prepara a celebrare le Olimpiadi della pace e della fraternità, vi sono notizie di spari e uccisioni di manifestanti a Lhasa. È la risposta della Cina al 'terrorismo' tibetano, fatto di proteste, marce di monaci e di laici, negozi dati alle fiamme, auto della polizia bruciate.
A quasi 50 anni dalla rivolta repressa nel sangue, che ha portato all’esilio del Dalai Lama e di decine di migliaia di tibetani, una nuova fiammata rischia di far divampare un incendio violento. Sono proprio i Giochi ad aver acceso la scintilla.
Atleti tibetani hanno chiesto di partecipare sotto la bandiera del proprio Paese, ma Pechino ha detto no. Per le cerimonie d’inizio e fine delle Olimpiadi sono previste performance di danzatori tibetani sorridenti sotto la bandiera cinese, mentre a Lhasa e in tutto il Paese la popolazione rischia il genocidio. Un genocidio anzitutto economico: le alte terre himalayane, ricche di minerali, sono battute da scienziati cinesi che cercano filoni di rame, uranio e alluminio, mentre alla gente non resta che l’abbandono dei pascoli e il lavoro nelle fabbriche dell’occupante. Il turismo è controllato da milioni di coloni cinesi, che violentano la cultura ancestrale. Pechino dice che tutto ciò serve per lo sviluppo locale.
Potrebbe essere vero, se non vi fosse pure il genocidio culturale e religioso: nessun insegnamento del credo e della lingua tibetani; nessun riferimento, né lode al Dalai Lama; controllo ferreo sui monasteri e sui civili con lo spiegamento di oltre 100mila soldati. Nel 1995, il controllo di Pechino è giunto fino a determinare il 'vero' Panchen Lama, eliminando quello riconosciuto dal Dalai Lama. E, dallo scorso settembre, tutte le 'reincarnazioni' dei Buddha (fra cui quella del Dalai Lama stesso, ormai 70enne), per essere 'vere', devono avere l’approvazione del Partito comunista. Le proteste di questi giorni, guidate soprattutto da giovani monaci e laici, sono il frutto della disperazione davanti al lento morire di un popolo impotente. Tale sentimento è indotto anche da Pechino. In tutti questi anni, il Dalai Lama ha proposto alla Cina una soluzione pacifica, che prevede l’autonomia religiosa dl Tibet, con la rinuncia all’indipendenza. Vi sono stati incontri fra rappresentanti del governo tibetano in esilio e le autorità occupanti. Ma il governo di Pechino, alla fine, ha sempre sbattuto la porta in faccia agli interlocutori, sospettando mire indipendentistiche del Dalai Lama, che oggi desidera soltanto essere un leader religioso. La mancanza di segni di speranza porta a gesti disperati. Non è difficile prevedere che la situazione a Lhasa diventi sempre più incandescente e possa spingere il regime a soluzioni estreme, con la scusa di combattere 'il terrorismo separatista'. Per la Cina è il momento della verità: dopo essersi preparata a diventare un Paese moderno in vista dell’appuntamento dei Giochi, deve mostrare di essere tale anche nel risolvere gravi crisi sociali.
L’apertura di un dialogo con il Dalai Lama sarebbe il migliore passo.
Sembra quasi una nemesi storica che a decidere debba essere il presidente Hu Jintao. Nel marzo del 1989 scoppiò in Tibet una delle periodiche rivolte, conclusa con un massacro e la legge marziale, decretata proprio da Hu Jintao, a quel tempo segretario del Partito a Lhasa. Pochi mesi dopo vi fu il terribile massacro di Tiananmen a Pechino. Ma a quasi 20 anni da quei fatti Hu Jintao si trova di fronte agli stessi problemi. La repressione non ha risolto nulla: è tempo per un altro tipo di soluzione.
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